di Pierluigi Fagan
Il 9 novembre scorso, il giorno dopo le elezioni americane, mi son ritrovato a dover correggere le bozze del mio libro che stava per andare in stampa, un libro di geopolitica ma non solo. Trattandosi di geopolitica, era certo ben presente non solo una descrizione del ruolo e strategia degli Stati Uniti nell’ordine mondiale ma ovviamente anche una previsione sul comportamento futuro della potenza egemone. In accordo col sentimento generale, si dava per scontato che questo comportamento futuro avrebbe sviluppato le logiche già ben note ed assai prevedibili della nuova presidente Hillary Clinton.
Il 9 novembre quindi, mi sono ritrovato con un problema e con davvero poco tempo per risolverlo perché comunque si doveva chiudere il lavoro da lì a giorni. Avevo certo seguito le elezioni americane e su Trump mi ero fatto una idea che fortunatamente, non seguendo in genere e del tutto la communis opinio, aveva almeno colto alcuni punti solidi della sua logica. Non ero caduto cioè nel tranello della propaganda americana che dipingeva Trump come poco più di un cretino. Debbo però ammettere che non avevo approfondito più di tanto seguendo un sommario calcolo delle probabilità che all’inizio aveva anche preso in considerazione le previsioni di Michael Moore ed Andrew Spannaus che ammonivano sulle concrete possibilità di vittoria del magnate ma che poi si era adagiato sul più unanime consensus generale che aspettava solo l’incoronazione della Signora del Caos.
Staccatomi di botto dal flusso del commento che imperversava in quella mattina presto di un mercoledì, privandomi del piacere sadico di gustarmi la Botteri colpita da sindrome post-traumatica e con lei tutte le élite del commento in crisi di panico, incontrato al volo l’editore per fare il punto sulla situazione, mi sono ritrovato a dover scrivere il futuro della politica estera di Trump in settantadue ore, stante che ciò che scrivevo sarebbe stato letto a partire dalla successiva metà gennaio senza più poter rimettervi mano.
Il problema era non solo capire meglio cosa avesse in mente un tizio che a parte una intervista al NYT e qualche accenno nelle sue torrenziali affabulazioni, non si poteva certo dire portatore di un chiaro quadro strategico generale ma anche fare tabula rasa di strati e strati di ricostruzioni basate sulla fog of war della contesa elettorale che proponevano opinioni in forma di fatti. Ancora oggi, nel numero in edicola della nostra principale rivista di geopolitica (Limes, 11, 2016) si rimane un po’/molto sul vago riguardo alla strategia d Trump ed è passato un mese. Purtroppo però, in un libro del genere, io non potevo rimanere sul vago e dovevo capire cosa avesse in mente Trump, lanciando un messaggio in bottiglia con due mesi di differita e su un punto non certo secondario della geopolitica dell’era complessa.
Riprendo allora la ricerca di analisi un po’ più ravvicinate e mi rileggo tre articoli a suo tempo pubblicati da Politico e frugo tra Foreign Affairs e Foreign Policy e qualche blog non allineato, in quel poco di materiale americano disponibile online che avevo archiviato, tra cui Ballotpedia, l’enciclopedia della politica americana che almeno dà fatti più che opinioni. Scopro così che il comitato elettorale di Trump ha una commissione esteri di quattro membri abbastanza ignoti che, assieme a qualcun’altro come il capo dell’intero team di campagna Manafort o il precedente collaboratore Page, poi costretti alle dimissioni, hanno tutti un interesse in comune: il petrolio.
La scandalosa revisione trumpiana del giudizio su Putin che tanto aveva sconcertato i pubblici commentatori non aveva nulla a che fare col Bene ed il Male, la libertà e la tirannia, il populismo e la democrazia liberale ed altre categorie imposte dalla propaganda atlantista neoliberale ma su un interesse concretissimo, il caro vecchio interesse delle nazioni. Ma certo, che cretini che siamo stati, ha senso, è logico! Si trattava di una ben congegnata, per quanto radicalmente diversa, interpretazione dell’interesse americano.
Trump finalmente mi si rivelava trasparente e come al solito la verità era lì in bella mostra sebbene impossibile per noi da leggere perché non la si guarda con gli occhi ma con ciò che li muovono e ne filtrano l’osservato, con ciò che già ci si aspetta di trovare secondo le nostre immagini di mondo e categorie a priori, accettando solo conferme e scartando ciò che secondo noi non è coerente, non in sé ma per noi, per il nostro giudizio a priori. Trump era tutto lì, in una promessa che a noi svagati nichilisti postmoderni imbarazza nella sua rozzezza e che sempre a noi, conoscitori delle tecniche di propaganda non poteva che apparire banale a fronte del sofisticato apparato di soft power della Signora del Caos: Make America Great Again!
Questo slogan era stato sbeffeggiato ed anche duramente criticato da Obama-Clinton, che lo tacciarono di disfattismo; i dioscuri WP & NYT nonché tutti i neolib/neocon che sognavano l’estensione infinita del “secolo americano” lo resero barzelletta, era la prova provata della white supremacy omofoba e razzista. Ma quello slogan, implicitamente, ammetteva invece che l’America aveva un problema, non piccolo, sostanziale: perdeva potenza. L’intera costruzione dell’economia finanziaria che aveva lasciato quella di produzione e scambio alla nuda concorrenza globale impossibile da vincere con gli emergenti, l’infatuazione per il delirio prometeico che portava alla strategia dello state-building, l’esportazione della democrazia liberale e diritto-umanitaria condita di ONG, il soft power di Nye, il privilegio concesso alla new economy celebrata dai Rifkin e persino dai cultori di casa nostra del “Frammento sulle macchine” di Marx, il doppio ostracismo a Russia e Cina ovvero come unire un competitor che non ha alcuna potenza economica ma la ha militare con quell’altro che non ha alcuna potenza militare ma la ha economica, i conseguenti alti costi per l’operatività NATO che è un finto outsourcing del complesso militare-industriale americano, i tassi bassi che creano l’economia delle bolle ritenuta da Summers l’unica possibilità per sostenere il capitalismo che in quanto americano è globale e porta il flusso dei dollari a finanziare la crescita altrui arricchendo solo l’1% dei supermiliardari che poi condizionano – finanziandola – la politica americana, la retorica multiculturale che lascia porte aperte a manodopera a basso costo mentre si lasciano libere le imprese nazionali di delocalizzare (anche quelle militari), l’ecologismo obamiano che sostiene la smaterializzazione industriale in favore del post-materialismo della Silicon Valley, la pace con l’Iran che è uno dei principali fornitori di energia alla Cina nonché passaggio obbligato per la Via della Seta, gli accordi di libero scambio che come ai più noto nulla avevano a che fare seriamente con il commercio ma molto avevano a che fare con l’uniformattazione giuridica che portava all’accoppiamento geopolitico, tutto questo non funzionava affatto. Tutto questo portava ad un risultato contrario alle intenzioni; altro che “secolo americano”, era tutto deflusso di potenza. La strategia era coerente, certo, ma sbagliata, radicalmente sbagliata.
Ecco allora che si spiegava la riproposizione trumpiana dell’economia di produzione e scambio in primo piano e la riconversione della banco-finanza prima americana poi mondiale a finanziare non la crescita mondiale ma quella americana (ed ecco le nomine dei Wall Street boys il cui compito sarà riportare le scommesse sul profitto a casa), l’ipotesi certa di un prossimo rialzo dei tassi che tanto la Yellen è da un anno che cerca di farlo, rialzo che creerà deflusso dai mercati delle economie emergenti togliendo loro l’ossigeno nel momento di maggior sforzo aerobico, i messaggi agli alleati che il servizio NATO da oggi ha un prezzario, addirittura le ipotesi sul congelamento delle lobbies di cui molte estere che condizionano il Congresso, i due mandati limite dopo i quali si torna a casa di modo da non creare una oligarchia avulsa dal tessuto sociale che è poi ciò che esprime di per sé l’interesse nazionale, le ricette reaganiane al posto di quelle Bill-clintoniane (il ritorno del liberismo al posto della degenerazione neo), il ripristino dei confini, la sostituzione della logica degli accordi pan-giuridici con quelli bilaterali basati su precisi calcoli di bilancia commerciale e che tra l’altro metteranno l’un contro l’altro gli astanti strappando le migliori condizioni al ribasso con la minaccia dei dazi. Make America Great Again!, ovvero ridare potenza concreta, industriale-occupazionale, politica e militare, altro che start-up e Soros!
Ed ecco allora il ritorno di Kissinger, la logica dell’hub & spoke, il divide et impera con russi e cinesi, carezze agli uni, schiaffetti a gli altri, il divide et impera con i bizantini europei, che sciolgano quell’obbrobrio germano-centrico dell’UE e soprattutto dell’euro che il dollaro reclama di nuovo il suo spazio visto che lo yuan lo insidia da altra parte. Ecco che il primo invito ufficiale va a Theresa May ed il secondo ad Orban, che i mercantilisti germanici comprendano bene le nuove regole del gioco. Ed ecco la denuncia degli accordi sul clima perché qui si torna a gas, petrolio e se necessario pure al carbone che l’industria ha fame e la strategia non prevede dipendenze esterne. E mentre Hillary si beava tra l’endorsement di Springsteen e quello di Lady Gaga e le profferte orali di Madonna, ecco perché poco notati perché assai meno “sexy” , con Trump si schieravano duecento generali (tra cui, in teoria, alcuni ex democratici come il poi eletto a consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn) a cui Trump prometteva più militari, più navi, il rifacimento dell’arsenale strategico atomico non per fare guerra domattina ma per prepararsi ad un futuro che si prevede difficilino.
Tanto “difficilino” che è meglio mettere anche qualche generale a governo dell’ordine interno (John Kelly) perché potrebbe tendere presto al disordine. Ed ecco che ci facevano tutti quegli amici dei petrolieri nella commissione esteri e quel Manafort già a capo dell’intero staff di Trump che il NYT aveva costretto alle dimissioni a settembre, avendolo pizzicato ad avere nel curriculum consulenze per Yanukovich e pare addirittura ruolo strategico ad organizzare manifestazioni anti-NATO in Ucraina mentre Soros organizzava quelle che hanno poi portato al regime change. Infine la ciliegina sulla torta, il nuovo segretario di Stato, quel presidente ad amministratore delegato di Exxon-Mobil, quel Rex. W. Tillerson che da buon petroliere sa come vanno le cose nel mondo (E-M ha presenza ed interessi in 50 dei 200 paesi del mondo) facendo il mestiere che più di ogni altro ti porta a dover conoscere la perfetta radiografia di ogni luogo in cui devi o meno fare investimenti miliardari di trivellazione o devi far passare le tue preziose condutture che non sono esattamente network immateriali post-geografici come s’è andato a celebrare nell’unanime retorica sul new-internet-one-world. Quel Tillerson che nel 2013 riceve la medaglia dell’Order of Friendship russo, attiva molteplici joint-venture con Rosneft e poi si imbizzarrisce contro le sanzioni perché gli congelano gli investimenti sullo sfruttamento del Mar di Kara e al largo di Sakhalin. Mr. Tillerson, il front man della cara vecchia industria petrolifera alle spalle della scalata di Trump al potere, che ora farà passare un oleodotto in camera da letto di Zuckerberg che poi ha anche una moglie cinese.
Incomprensibile come ancora oggi dopo il crollo delle interpretazioni lungo tutta la campagna elettorale, i commentatori mainstream non riescano a capire che non è Trump che s’è alzato una mattina ed ha deciso che Putin gli piace contro tutto e contro tutti ma che Trump è il front man di una visione di potenza che economicamente si basa sul tentativo di un grande recupero su industria ed energia e che poiché il futuro dei giacimenti non ancora trivellati è in Russia o nei mari intorno alla Russia, coi russi conviene farci affari caldi invece che guerra fredda. Rimozione forzata che chiude gli occhi anche davanti alla elementare constatazione che spingere russi verso i cinesi e viceversa è creare un super nemico quando gli annali raccontano di quando Kissinger riuscì a dividere i due unici paesi comunisti del tempo inviando una squadra di ping-pong e un presidente conservatore di destra a stringere la mano a Mao.
Meno male. La tesi centrale del libro che voleva gli Stati Uniti riformulare la strategia di potenza in vari modi ma specificatamente separando russi e cinesi per evitare il formarsi dell’incubo eurasiatico, il cambio di tattica saldato dall’interesse energetico-industriale oltreché geopolitico commerciale e militare, è salva. L’essermi tenuto stretto alla strategia secolare che parte dall’ammiraglio Mahan prima ancora di Mackinder ed al realismo analitico legandomi al palo dell’interesse nazionale per non cadere nelle seduttive letture postmoderne, neocon/neolib, post-veritiere ed altri confusioni che fanno dei nostri difficili tempi un caso limpido di disadattamento alla transizione all’era complessa, mi ha salvato. Certo Tillerson dovrà sopravvivere all’ultima battaglia inaugurata dalla CIA, un mese di lotta furibonda tra le élite del sistema precedente e quelle del sistema in ascesa che si concluderà con il voto della Commissione esteri e poi al Senato. Ad appoggiare il texano, secondo WP, scenderanno in campo la Rice (massima esperta del quadrante centro-asiatico), Gates, Baker ed addirittura Cheney se necessario.
Comunque vada però, le mie ventisette pagine sulla “Trump’s Grand Strategy” scritte febbrilmente al buio dei successivi eventi in quelle settantadue ore di grande confusione generale, saranno leggibili anche quando Mr. President entrerà il 20 gennaio alla Casa Bianca. Io sarò lì, dal 13 gennaio, ad aspettarlo sui banconi delle librerie a tentar di spiegare cosa comporta che lui voglia fare la sua “America Great Again” e molto altro di questi tempi difficili che ci è toccato in sorte di vivere. Quel “gioco di tutti i giochi” di cui noi europei saremo spettatori paganti, nel senso che ne pagheremo per primi e di più i costi del riassetto multipolare del mondo discutendo di migranti sì-no, luce in fondo al tunnel, austerità, valori cosmopolitici, sovranità sul nostro metro quadro di mondo e non c’è più destra né sinistra, populismo, leader carismatici, stabilità. Meno male che noi italiani schiariamo Alfano, altrimenti ci sarebbe da preoccuparsi…
Pierluigi Fagan, Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump. Fazi editore, Roma, 2017, in libreria del 13 gennaio 2017.
Pubblicato sul blog dell’autore il 13 dicembre 2016.