di Thomas Fazi
Nel recente dibattito sulla loi travail – la recente riforma del diritto del lavoro francese (in chiave “liberalizzante” ed anti-sindacale) che ha scatenato la furibonda reazione di sindacati e movimenti, e l’altrettanto furibonda rappresaglia del governo Hollande, che alla fine ha imposto la riforma manu militari, saltando a pie’ pari il parlamento – vi è un elemento che è rimasto relativamente in sordina: il ruolo giocato dalle istituzioni europee, ed in particolare da quel complesso sistema di trattati, regole, leggi, accordi, procedure, disposizioni ed istituzioni che prende il nome, apparentemente innocuo, di “governance economica”. Come viene evidenziato in un recente rapporto di Corporate Europe Observatory, su cui questo articolo è largamente basato, sebbene la responsabilità formale per la riforma sia ovviamente del governo francese, «la Commissione europea, con il sostegno del Consiglio, ha utilizzato le regole sui deficit degli Stati membri per esercitare pressioni sul governo francese, minacciando sanzioni qualora il governo non avesse accettato di riformare radicalmente le proprie leggi in materia di diritto del lavoro… al fine di garantire una maggiore redditività per le imprese attraverso una pressione al ribasso sui salari».
Per capire come questo sia stato possibile, bisogna esaminare come si è evoluto “il coordinamento e la sorveglianza delle politiche di bilancio e delle politiche macroeconomiche” – altresì noti come governance economica – dal 2008 ad oggi. La Francia, come molti altri paesi, ha visto salire drammaticamente il proprio livello di deficit pubblico in seguito alla crisi finanziaria del 2007-8. Di conseguenza, nel 2009 il Consiglio aggiungeva la Francia alla lunga lista di paesi – undici in totale quell’anno – oggetto di una procedura per disavanzo eccessivo (PDE), una misura prevista dal Trattato di Maastricht che impone ai paesi interessati di ridurre il proprio disavanzo e che, in casi estremi, può anche risultare nel pagamento di una sanzione. La procedura per i disavanzi eccessivi è stata poi ulteriormente rafforzata nel 2011 con l’approvazione da parte del Parlamento europeo del six-pack, un pacchetto di riforme che ha ulteriormente radicalizzato il carattere “austeritario” della governance economica europea, attraverso l’introduzione della cosiddetta “maggioranza qualificata inversa”. Questo sistema prevede un semi-automatismo delle procedure per l’irrogazione delle sanzioni per i paesi che violano le regole del patto di stabilità e crescita: in sostanza, se prima le sanzioni dovevano essere approvate dalla maggioranza degli Stati membri, ora le sanzioni sono raccomandate dalla Commissione e si considerano automaticamente approvate dal Consiglio a meno che esso non le respinga con un voto a maggioranza qualificata degli Stati membri in senso contrario (ovviamente non si tiene conto del voto dello Stato interessato). Risulta evidente che questo aumenta enormemente la pressione esercitata sugli Stati membri oggetto di una PDE (nonché la pressione che i governi possono esercitare sui loro rispettivi parlamenti): la probabilità di incorrere in sanzioni e di essere esposti al pubblico ludibrio è molto maggiore rispetto al passato, infatti (si ricorderà che nel 2003 sia la Francia che la Germania sforarono il “tetto” del 3% di rapporto deficit/PIL senza subire conseguenza alcuna).
È qui che entra in gioco la legge El Khomri, la loi travail. Un paese sotto procedura riceve a intervalli regolari una serie di raccomandazioni da parte della Commissione e del Consiglio. In teoria queste dovrebbero riguardare unicamente «le misure necessarie per ridurre il disavanzo entro un periodo specifico». Nel 2013, però, il tono delle raccomandazioni è cambiato: alla Francia (e agli altri paesi) adesso veniva chiesto di raggiungere gli obiettivi di bilancio «per mezzo di ambiziose riforme strutturali… nell’ambito dei mercati del lavoro, dei beni e dei servizi», in linea con le raccomandazioni del Consiglio «nel contesto del Semestre europeo». Il Semestre europeo è un sistema di coordinamento nell’ambito del quale la Commissione ed il Consiglio redigono delle specifiche proposte di riforma per ogni singolo Stato membro. Fino al 2011 le raccomandazioni non erano vincolanti. Nel 2013, poi, il two-pack (l’altro pacchetto di riforme della governance europea approvato dal Parlamento europeo) ha introdotto un ulteriore rafforzamento delle norme relative alla procedura per i disavanzi eccessivi: adesso i paesi che sono sottoposti ad una procedura devono presentare programmi dettagliati delle riforme strutturali e di bilancio che prevedono di realizzare per correggere i loro rispettivi disavanzi, nell’ambito dei cosiddetti “programmi di partenariato economico”. Nel caso di mancata implementazione delle riforme – ed è questa la vera novità introdotta dal two-pack – il Semestre europeo prevede in ultima istanza anche l’applicazione di sanzioni nell’ordine di diversi miliardi di euro. Dal 2013 in poi, dunque, la Francia si è ritrovata oggetto di un’ondata di raccomandazioni che avevano tutte lo stesso obiettivo: l’implementazione di «ambiziose riforme strutturali», pena l’applicazione di salate multe.
Ma c’è di più. Nelle prime fasi della crisi dell’euro è stato introdotto anche un nuovo procedimento: la procedura per gli squilibri macroeconomici (Macroeconomic Imbalance Procedure – MIP). La procedura consente alla Commissione di monitorare lo sviluppo delle economie degli Stati membri sulla base di una serie di indicatori. Uno di questi – forse il più importante – misura lo sviluppo dei costi unitari del lavoro. La logica è la seguente: se i salari non sono tenuti a bada, la competitività ne risente e si rende necessario un intervento deflattivo da parte del governo. Qualora il Consiglio, in base alle raccomandazioni della Commissione, ritenga che uno Stato membro presenti degli squilibri eccessivi può aprire una procedura per squilibri eccessivi, sollecitando lo Stato in questione ad adottare misure correttive ed eventualmente costringendolo a pagare una sanzione finanziaria. La MIP rappresenta dunque un’altra potente arma nell’arsenale della Commissione (e del Consiglio). Ed è da un po’ che la Francia è nel mirino della Commissione. Più volte, nell’ambito della MIP, ha puntato il dito contro il diritto del lavoro francese, reo di «limitare la capacità delle imprese di negoziare l’adeguamento dei salari verso il basso». La situazione è arrivata al culmine nel febbraio del 2015, quando la Commissione ha intensificato la procedura ed ha individuato nella Bulgaria e nella Francia i casi più urgenti. La decisione ha messo la Francia ad un passo dalla temuta procedura per squilibri eccessivi. Secondo le stime di Corporate Europe Observatory, tutte le varie multe messe insieme – dalla procedura per disavanzo eccesso alla procedura per squilibri eccessivi – potrebbero ammontare allo 0,5 per cento del PIL francese: circa 11 miliardi di euro.
A marzo, poi, la Commissione ha concesso altri due anni alla Francia per “mettere ordine in casa propria”. Qualunque dubbio su cosa si aspettassero le autorità europee dalla Francia è stato fugato dalle “raccomandazioni specifiche” rivolte al governo francese, nel luglio del 2015, nell’ambito del Semestre europeo: «riformare il diritto del lavoro per incentivare maggiormente i datori di lavoro ad assumere con contratti a tempo indeterminato; favorire la diffusione di deroghe alle disposizioni di legge generali a livello di impresa o di settore, in particolare per quanto riguarda l’orario di lavoro». In altre parole, esattamente le stesse riforme oggi al centro della controversa legge El Khomri.
In conclusione, senza voler sottovalutare l’importanza che avranno senz’altro giocato in questa vicenda le dinamiche interne della Francia – in primis le pressioni degli industriali francesi e la volontà del governo di “spezzare le reni” ai sindacati –, risulta evidente che questa riforma è anche il risultato delle fortissime pressioni esercitate dalla Commissione e del Consiglio attraverso il nuovo sistema di governance economica europea, che di fatto rende i singoli Stati membri del tutto impotenti di fronte alle macchinazioni della tecnocrazia europea e degli Stati egemoni del continente. In questo senso, come commenta Corporate Europe Observatory, «la lotta in corso in Francia può essere vista come un importante banco di prova per la governance economica europea. Se uno Stato grande e potente dell’UE può essere spinto ad attaccare i princìpi fondamentali del proprio diritto del lavoro, allora il rischio di misure nuove e più forti si rende molto più probabile in futuro. Anche se i lavoratori francesi non se ne rendono conto, stanno combattendo una battaglia che riguarda l’Europa intera».