di Tim Parks
Non è stato il risultato del voto sulla Brexit a sorprendermi. Mi hanno sorpreso quelli che sono rimasti sorpresi. Non è forse vero che i sondaggi avevano mostrato per settimane una sostanziale parità? O che gli inglesi parlavano di questa prospettiva da decenni? Non sono rimasto sorpreso e meno che mai scandalizzato. Se avessi avuto il diritto di votare, che ho invece perso dopo aver vissuto per trent’anni in Italia, avrei preferito rimanere nell’Unione europea. Ma non ritengo uno scandalo che altri possano pensarla diversamente. Se votare “Leave” è uno scandalo, allora sicuramente è stato uno scandalo indire il referendum. E se è uno scandalo indire un referendum su una questione fondamentale per il destino di una nazione e molto sentita dalle persone, vorrà dire che sono io ad aver male inteso il significato di libertà e democrazia nel mondo occidentale.
Da dove arriva allora tutta questa incredulità e indignazione? Perché questo senso di tradimento? Perché molti non riescono ad accettare il risultato? Sembra che negli ultimi 30-40 anni si sia cristallizzata l’idea che non ci possa essere un futuro pacifico e produttivo per l’Europa senza l’Unione europea. Quindi, chiunque abbia votato per uscire da questa istituzione deve essere denigrato come pericoloso o ignorante, carnefice o vittima di un qualche sinistro populismo. Negli USA, questa dannosa reazione ha preso la forma del collegamento tra i leader del “Leave” e Donald J. Trump. Ma l’Inghilterra non è l’America e queste non erano elezioni presidenziali. Certo l’immigrazione ha pesato, ma nessun componente della campagna per il “Leave” ha mai suggerito che i mussulmani vadano banditi dall’Inghilterra. Al contrario, alcuni mussulmani si sono schierati per la Brexit. Interpretare i dibattiti di altri paesi nei termini della propria politica interna è un pessimo esercizio di fantasia.
Tutto questo shock, orrore e denigrazione impulsiva sarebbero comprensibili se l’UE stesse inanellando importanti successi e risolvendo i molti problemi dei suoi Stati membri o, volendo volare più basso, avesse una figura di spicco con cui i cittadini europei potessero identificarsi, qualcuno di cui poter dire: «Per quanto le cose stiano andando male, abbiamo fiducia in questo e in questo, crediamo che lui/lei abbia davvero a cuore gli interessi del mio paese, e sia davvero preoccupato per la disoccupazione che colpisce la mia città», che si tratti di Newcastle piuttosto che di Napoli.
Possiamo onestamente sostenere questo di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, il braccio esecutivo dell’UE? O di Angela Merkel? Anche se sulla carta l’UE è una comunità di nazioni, sappiamo perfettamente che chi esercita più potere è il cancelliere tedesco. E solo i tedeschi votano per eleggere il cancelliere tedesco. I suoi obblighi sono anzitutto verso i tedeschi. Nessuno di noi ha votato l’austero signor Juncker, che viene nominato dal Consiglio europeo e approvato dal Parlamento europeo. Attualmente le nostre cosiddette elezioni parlamentari seguono una logica puramente locale e nazionale, con una affluenza ridicola e pochissima consapevolezza di cosa faccia davvero questa istituzione. Nel 2014 hanno votato solo il 18% dei cechi, il 13% degli slovacchi e il 24% dei polacchi.
Si tratta di un fallimento enorme. Dopo 17 anni di euro, vedere le economie di Francia, Spagna, Italia e Grecia (che ha adottato la moneta comune nel 2001) in una stagnazione di lungo termine è un fallimento devastante. La disoccupazione giovanile in Spagna è intorno al 45%, in Italia intorno al 37%. E meglio non dire nulla della Grecia.
Ma il più grande fallimento dell’Unione è che, dopo decenni di regolamenti su qualsiasi cosa possibile, non è riuscita a rendere le nazioni del continente più vicine tra loro. Quotidianamente gli italiani si sentono dire se la politica economica dei loro governi è stata accettata o rifiutata da Berlino, ma gli italiani sanno poco o nulla di quanto fanno i tedeschi. In tutti i paesi, seguiamo i nostri media nazionali e le agende sono incentrate sui nostri sistemi politici. Siamo nazioni separate ma non sovrane. Obbediamo ai diktat di Bruxelles e leggiamo Jonathan Franzen e Harry Potter. Vediamo i film americani e seguiamo le elezioni americane molto più da vicino di quanto facciamo con quelle delle altre nazioni dell’UE. Vi sembra una comunità?
La classe media, l’élite culturale, ama pensare di essere parte di un progetto storico che porterà pace e prosperità al continente, metterà fine alle guerre, si impegnerà nella difesa dell’ambiente, proteggerà gli europei dalle ambizioni delle superpotenze e dai saccheggi delle multinazionali, ecc. Anche a me piace questa prospettiva. Come molti altri, mi conforta questa nobile impresa. Ma nel momento in cui il progetto non porta prosperità, non fa abbastanza per proteggere l’ambiente, quando le sue strategie protezioniste danneggiano sistematicamente le economie del terzo mondo, io, come chiunque altro, preferisco non pensarci; preferiamo girarci dall’altra parte. Non è questa la storia di cui ci piace far parte.
Per lo meno, negli anni ’90, sotto la leadership di François Mitterrand, Helmut Kohl e Jacques Delors, esisteva un vero progetto di unità politica in Europa. L’idealismo era ovunque. L’introduzione dell’euro è stato un momento chiave nel processo di una sovranità condivisa. Ma le difficoltà di gestire economie separate e molto diverse con la stessa moneta, mentre l’economia mondiale entrava in crisi, ha di fatto aumentato le tensioni tra i paesi membri, al punto che ormai c’è un ben piccolo spiraglio per la prospettiva del tipo di unione che avrebbe potuto rendere più gestibile la moneta comune, e non esiste l’idea di smantellarla. Semplicemente l’Europa è incapace di completare la trasformazione che essa stessa ha avviato; anziché guadare il torrente, sta affondando nel fango. Nel frattempo, l’incanto della “buona comunità” fa da ostacolo ai cambiamenti. Perché mai Bruxelles dovrebbe riformarsi se nessun paese oserebbe mai andarsene?
Con la Brexit, questo sortilegio vecchio di decenni si è spezzato. E come reagisce a questo allarme assordante l’élite liberale, da entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico? Dicono che non vale e insultano gli stupidi lavoratori inglesi che gli hanno rovinato la festa. Sarebbe più saggio riconsiderare la nostra fede in una narrazione che non ci sta portando da nessuna parte.
Pubblicato sul New York Times il 9 luglio 2017. Traduzione di Voci dall’Estero rivista da Thomas Fazi.