di Carlo Clericetti
La distruzione della ragione è il titolo di un ponderoso saggio in cui il filosofo ungherese György Lukács analizzò il percorso intellettuale che aveva portato la Germania agli orrori del nazismo. Fatte le debite proporzioni e differenze, qualcosa di analogo si potrebbe scrivere oggi sul percorso che sta portando la Germania a distruggere l’Europa, per lo meno quell’idea di Europa che avevano in mente gli intellettuali di Ventotene e che per tanti anni ha affascinato noi Italiani più dei popoli degli altri paesi.
La spirale autodistruttiva perseguita dai tedeschi sta facendo probabilmente il suo ultimo giro, al termine del quale si aprono scenari che sarebbe un eufemismo definire foschi. Uno dei più probabili è quello dell’implosione – ossia la situazione che sfugge di mano a chi oggi determina le politiche – con conseguenze difficili da prevedere ma certamente catastrofiche. Un altro, a cui gli allibratori inglesi darebbero purtroppo qualche punto in più, è quello della desertificazione economica di interi paesi (tra cui il nostro), ridotti a colonie del nucleo centrale guidato dalla Germania. Un terzo è quello che sarebbe auspicabile, ma non ha nessuna chance di verificarsi, ossia la rifondazione dell’Europa, che straccia i trattati da Maastricht in poi e li riscrive secondo una logica profondamente diversa. È arrivato dunque il momento, ormai non più rinviabile, di puntare tutto sul costruire una strada diversa. Che si voglia chiamare “piano B” o in un altro modo poco importa: ciò che conta è che ci si renda conto che o riusciamo a cambiare direzione subito o sarà troppo tardi per farlo.
Il motivo di questa urgenza è in due proposte – entrambe provenienti dalla Germania – che, se passeranno, segneranno la nostra fine come paese avanzato. La prima è quella che vorrebbe che ai titoli pubblici posseduti dalle banche siano attribuiti coefficienti di rischiosità corrispondenti a quelli degli Stati, mentre ora sono considerati privi di rischio. Nei bilanci emergerebbero perdite enormi che renderebbero necessari altrettanto enormi aumenti di capitale, e non si vede dove potrebbero essere reperiti tutti quei soldi. Il valore delle nostre banche crollerebbe e chiunque le potrebbe acquistare per un tozzo di pane. Naturalmente le banche potrebbero vendere quei titoli, ma questo provocherebbe una crisi ancora peggiore, ossia una crisi del debito pubblico. In quel caso saremmo costretti a ricorrere al fondo salva-Stati, ma cadremmo dalla padella nella brace: il piano tedesco prevede infatti che chi lo facesse sarebbe automaticamente soggetto alla ristrutturazione obbligatoria del debito pubblico, il che significa allungamento delle scadenze e magari anche sospensione e riduzione degli interessi. In pratica un default obbligatorio i cui costi ricadrebbero sui possessori dei titoli pubblici, cioè su tutti noi.
L’altra proposta, sempre di provenienza tedesca e di recente caldeggiata in un articolo dei presidenti della Bundesbank e della Banca di Francia, è quella di un ministro del Tesoro europeo, che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci. Lo scopo, assolutamente evidente, è rendere ferreo il controllo sul rispetto del sentiero di consolidamento dei conti pubblici previsto dal fiscal compact, con tanti saluti alle “flessibilità” di ogni tipo. Insomma, un’ulteriore stretta nel senso dell’austerity, che allontanerebbe definitivamente ogni speranza di una nostra ripresa.
Sono proposte, ma l’esperienza di questi anni ci dice che le “proposte” della Germania nove volte su dieci diventano regole dell’Unione. Così è accaduto per l’impostazione del Trattato di Maastricht e dello statuto della BCE, così per il “salvataggio” della Grecia (in realtà delle banche tedesche, francesi e olandesi), così per la priorità alla politica di consolidamento di bilancio riassunta nel fiscal compact, così per il principio “aiuti in cambio di riforme” (le riforme che piacciono ai tedeschi) e la centralizzazione dei controlli sulla finanza pubblica, che erano stati annunciati dalla cancelliera Merkel al Parlamento tedesco dicendo esplicitamente che ne sarebbe stata forzata l’approvazione: «I nostri più stretti alleati, i francesi, si oppongono, e così altri paesi», ma noi li imporremo. Infatti. E ancora, più di recente, le regole del bail-in e la sua applicazione nel caso italiano e la vicenda della bad bank per le sofferenze, formalmente gestite dalla Commissione, ma secondo le linee dettate dal governo di Berlino.
La novità è che finalmente anche il nostro presidente del Consiglio e il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan sembrano essersi resi conto che – se finora ci stavano lentamente uccidendo – ora siamo davanti a un programma che ci ucciderà invece velocemente. La lettera di Renzi a Repubblica contiene quasi tutte le obiezioni alla politica europea che si sono lette negli scritti di chi da anni ha assunto una posizione critica (e che chi segue questo blog ha letto infinite volte). Meglio tardi che mai, naturalmente.
Scrive Renzi: «L’austerity non basta. E del resto i paesi che sono cresciuti in Europa lo hanno fatto soltanto perché hanno violato in modo macroscopico le regole del deficit: penso al Regno Unito di Cameron che ha finanziato il taglio delle tasse portando il deficit al 5% o alla Spagna di Rajoy che ha accompagnato la crescita con un deficit medio di quasi il 6%».
Insomma, quello che scriviamo da tanto tempo finalmente lo scrive anche il presidente del Consiglio. Attenzione, non pensiamo affatto che solo noi che scrivevamo quelle cose le avessimo capite per tempo: ma no, non c’era bisogno di essere geni, non era una grande scoperta. Se a livello ufficiale queste cose non si dicevano era per ragioni politiche, per restare allineati e coperti rispetto alla linea ufficiale imposta dalla Germania e dalle tecnocrazie. E perché adesso si dicono? Perché siamo davvero sull’orlo del baratro, e se si faranno quei due passi di cui abbiamo parlato ci precipiteremo e ci sfracelleremo.
Ma Renzi lancia il sasso e ritira la mano: «Non pongo un problema di regole, sia chiaro. L’Italia rispetta le regole, con un deficit che quest’anno sarà il più basso degli ultimi dieci anni (2,5%). La Germania invece non rispetta le regole con un surplus commerciale che continua a essere sopra le richieste della Commissione… Il problema non sono le regole, dunque; il problema è la politica economica di questa nostra Europa».
Eh no, presidente. Il problema sono proprio le regole, perché la politica economica è ferreamente guidata appunto da quelle regole. Se non cambiano quelle, la politica economica non può cambiare. Che quella frase costituisca un diplomatico tentativo di nascondersi dietro un dito, di fingere che si sta confermando che siamo comunque disciplinati? Può darsi, ma così non si mette sul tavolo il vero problema, che è esattamente questo: o l’Europa cambia radicalmente, o ci avviamo a precipizio verso uno di quei due terribili scenari descritti all’inizio.
Che cosa si può fare? Non possiamo nemmeno sperare, a meno di affidarsi completamente alla fantasia, che si riesca ad imporre la riscrittura dei trattati. Neanche se riuscissimo a stringere alleanze con il governo di sinistra portoghese e con un eventuale governo simile spagnolo, a cui potrebbe aggiungersi la Grecia di Tsipras: l’alleanza dei PIGS non può sperare di cambiare l’Europa. L’unica possibilità – e quello che dovremmo ad ogni costo ottenere – è un qualche tipo di opting out, di esenzione dalle regole, magari definendola temporanea per salvare le forme, come l’hanno ottenuto in alti casi altri paesi, vuoi per non entrare nell’euro, vuoi per non aderire a Schengen (il Regno Unito, per esempio, entrambi). Londra, brandendo l’arma del referendum “Brexit”, ha intavolato una dura trattativa per ottenere altre eccezioni alle regole comuni e molto ha già ottenuto. Certo, per loro è meno difficile minacciare perché sono fuori dall’euro, ma neanche per loro uscire dalla UE sarebbe una passeggiata. E comunque la nostra situazione è molto più drammatica: a questo punto, rimanere a quelle condizioni non sarebbe meno deleterio che uscire, anche se in modo traumatico.
L’unica possibile soluzione, insomma, è “meno Europa”, invece che “più Europa” come continua a chiedere chi evidentemente non si rende ben conto della situazione. Ma non sarebbe la prima volta che nella storia dell’unità europea si fanno passi indietro. Nulla impedisce che in seguito si possa riprendere il cammino unitario, come più volte è accaduto in passato; ma non certo sulle basi attuali. Questo, anzi, potrebbe essere l’ultimo treno per salvare l’Europa, che altrimenti va incontro a una crisi traumatica e drammatica (e noi con lei).
Qual è l’alternativa? Continuando a stare in questa Europa, guidata da questi principi, queste regole, questa politica, il nostro (rapido) destino è diventare la Calabria del continente, con la differenza che noi alla Calabria qualche aiuto lo diamo, mentre l’Italia non avrebbe neanche quello. La Germania si sta comportando come i naufraghi che colpiscono col remo l’uomo in mare per paura che se salisse la scialuppa sarebbe troppo carica, con il dettaglio che è tra i massimi responsabili del naufragio. Il rischio è che qualcuno abbia la tentazione di far affogare tutti sperando di ottenere un posto a bordo, anche se da mozzo. Non c’è che dire, è proprio l’Europa sognata a Ventotene.
Pubblicato su Repubblica il 14 febbraio 2016.