di Thomas Fazi e Guido Iodice
Negli ultimi mesi si sono affacciate numerose proposte di riforma dell’Unione europea improntate al rafforzamento della centralizzazione delle decisioni in capo agli organismi comunitari. Si è partiti nel giugno 2015 da una lettera del ministro dell’economia francese Emmanuel Macron e del vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel, pubblicata dai maggiori quotidiani europei, in cui si proponeva un “embrione” di Tesoro europeo, controllato da un parlamento dell’eurozona, per giungere, negli ultimi giorni, ad un analogo documento dei governatori delle banche centrali di Germania e Francia, Jens Weidmann (Bundesbank) e François Villeroy de Galhau (Banque de France), apparso sulla Süddeutsche Zeitung, i quali lamentano l’assenza di un interlocutore politico della Banca centrale europea e propongono quindi un “superministro” dell’economia dell’eurozona.
A differenza del duo Macron-Gabriel, i due banchieri centrali si sono ben guardati dall’avanzare proposte realmente federaliste. Al contrario, il loro articolo si concentra sull’impellenza delle riforme strutturali nazionali e sull’unione dei mercati dei capitali (pomposamente ribattezzata “unione di finanziamenti e investimenti”), qualcosa di cui non vale la pena neppure parlare in questa fase di estrema frammentazione dell’eurozona a causa della mancanza di meccanismi che garantiscano la stabilità delle istituzioni finanziarie a prescindere dal paese di residenza. Sul punto dell’istituzione del superministero dell’economia europea, peraltro, Weidmann ha successivamente precisato che si tratta di una ipotesi di lungo periodo (quello in cui notoriamente saremo tutti morti) e che ciò che conta adesso è fare le riforme.
Quella di un “Tesoro europeo” non è una proposta insensata. La crisi finanziaria ha messo a nudo il “peccato originario” dell’euro: l’aver privato gli Stati membri della loro autonomia fiscale – attraverso la creazione di un’autorità monetaria del tutto separata dalle autorità politiche (sia nazionali che europee) e l’istituzione di ferrei vincoli di bilancio – senza prevedere il trasferimento di questo potere di spesa ad un’autorità più alta (un “Tesoro europeo”, appunto). Se si vuole perseguire la strada del federalismo europeo, quindi, il tema non dovrebbe essere quello di creare un ministro, ma un Tesoro. Un’unione fiscale degna di questo nome richiederebbe infatti un bilancio federale pari almeno al 10 per cento del PIL dell’eurozona, riequilibratori automatici in grado di compensare gli shock asimmetrici (come il sussidio di disoccupazione europeo proposto dal ministro italiano Pier Carlo Padoan), un’autorità federale capace di effettuare spesa in deficit con il sostegno attivo della BCE e un effettivo trasferimento di rappresentatività democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale (in onore al principio no taxation without representation).
Questo tipo di unione fiscale – che potremmo definire keynesiano – è però fuori dal novero delle opzioni politicamente accettabili da parte della Germania. I connotati del futuribile “ministro del Tesoro” europeo sono quelli invece disegnati dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble: una sorta di «lord supremo del bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da Yanis Varoufakis. Si tratta, in sostanza, di privare gli Stati nazionali di quel minimo di potere discrezionale rimasto loro, mettendo definitivamente il pilota automatico all’austerità: il passo finale nella trasformazione definitiva dell’eurozona in una gabbia ultraliberista basata su un sistema di regole “stupide” e inflessibili. Come scrive Gustavo Piga, procedere nella direzione di un ministro del Tesoro europeo «sarebbe un errore mortale ed è essenziale che le sinistre europee lo ribadiscano forte e chiaro nei loro futuri incontri in comune».
Lascia basiti, dunque, che diversi politici e commentatori nostrani “di sinistra”, tra cui Eugenio Scalfari e Laura Boldrini, facciano addirittura il tifo per questa proposta, dimostrando una drammatica (e pericolosa) incapacità di interpretare la delicatissima fase storica che stiamo attraversando. Qualche giorno fa il fondatore di Repubblica scriveva che «un ministro del Tesoro unico non è limitato a render più forte la politica di crescita ma rappresenta anche un passo avanti verso gli Stati Uniti d’Europa, obiettivo fondamentale per affrontare i problemi d’una società globale come quella nella quale ormai da tempo viviamo», e incoraggiava Renzi a proseguire su questa strada.
Fortunatamente, la reazione del governo italiano a questa proposta, in particolare da parte del premier Matteo Renzi, è stata finora molto tiepida. Adesso però occorre imboccare con decisione la direzione opposta a quella del “più Europa”. Le “cessioni di sovranità” accordate negli ultimi anni all’Unione europea stanno avendo l’effetto di dividere l’Unione, invece che consolidarla. Ad esempio, mentre l’austerità e le politiche deflattive imposte ai paesi europei hanno moltiplicato le sofferenze bancarie, la nuova direttiva sulle risoluzioni (il cosiddetto bail-in) ha messo a rischio la fiducia nel sistema finanziario dei paesi europei, soprattutto i più deboli, frammentando ulteriormente l’eurozona. Il tutto mentre manca ancora una garanzia comune dei depositi e in generale la condivisione dei rischi che rappresenta il cemento di una qualsivoglia unione economica. Non si tratta, sia chiaro, di “errori” nell’applicazione di una politica sensata, ma di un disegno di riforma che insiste sui difetti di progettazione dell’euro, aggravando le divergenze tra i paesi e regalando a quelli più forti ulteriori vantaggi egemonici sia in termini economici che politici, approfittando della resilienza dell’euro sostenuto della credibilità della Banca centrale europea. Resilienza che rischia comunque di essere messa a dura prova dalla nuova crisi bancaria e borsistica che sta montando sui mercati europei e globali, come risultato delle politiche deflattive perseguite in questi anni.
Chi ha a cuore l’Europa, quindi, dovrebbe proporre una ricetta opposta, quella di una cessione di sovranità verso il basso, dall’Unione verso gli Stati. Vale a dire “rinazionalizzare” la politica fiscale, permettendo ai paesi in crisi – in primo luogo quelli della periferia – di far salire il loro deficit pubblico ai livelli necessari per compensare il crollo della spesa privata. A chi dice che l’aumento del debito pubblico sarebbe ingestibile, basta rispondere che il settore privato coglierebbe al volo la possibilità di poter parcheggiare i propri risparmi in titoli di Stato, che rappresentano un investimento sicuro e dal rendimento garantito, a patto che la BCE garantisca de facto i debiti pubblici dei paesi membri, in assenza di un debito pubblico federale.
L’occasione politica è costituita dall’accesso all’area di governo di forze di sinistra in Grecia, Portogallo e (probabilmente) a breve in Spagna. È significativo che tali forze “radicali” abbiano deciso di muoversi nell’ambito dell’Unione europea, assumendo l’esistenza della moneta unica come un dato, senza cadere nell’illusione di un “imminente” e “inevitabile” crollo dell’euro, schiacciato dalle sue “insanabili contraddizioni interne”. Ancora una volta – come fu negli anni ‘30 del Novecento – il compito dei progressisti è quello di salvare il capitalismo da se stesso, al contempo trasformandolo radicalmente. Oggi si tratta di salvare l’unione monetaria dai suoi troppo affezionati epigoni, dandole una diversa sostanza, ma anche una nuova forma. Fino a quel momento – e finché non si siano create le condizioni per una reale solidarietà intraeuropea – qualunque approfondimento del processo di integrazione va rigettato con forza.