di Nafeez Ahmed
Le grandi imprese energetiche statunitensi, britanniche, francesi ed israeliane potrebbero essere le principali beneficiarie delle operazioni militari in Iraq e in Siria, finalizzate ad arginare il potere dello “Stato Islamico” (ISIS) e, potenzialmente, anche del regime di Bashar al-Assad.
Uno studio realizzato nel 2011, nel pieno della primavera araba, da una società di servizi petroliferi legata al governo francese e all’attuale amministrazione britannica, notava il significativo «potenziale idrocarburico» dei giacimenti offshore della Siria.
Lo studio fu pubblicato su GeoArabia, una rivista di settore pubblicata dalla società di consulenza del Bahrain GulfPetroLink, a sua volta sponsorizzata da alcune delle più grandi imprese petrolifere al mondo, tra cui Chevron, ExxonMobil, Saudi Aramco, Shell, Total e BP.
Lo studio, firmato da Steven A. Bowman, geoscienziato della compagnia energetica francese CGGVeritas, identifica «tre bacini sedimentari – Levante, Cipro e Laodicea – localizzati al largo delle coste siriane».
L’affaire segreto della Francia con la Siria di Assad
Durante la primavera araba, mentre la Siria sprofondava nel caos, la CGGVeritas operava nel paese per conto del ministero del petrolio e delle risorse naturali del presidente siriano Bashar al-Assad.
La compagnia francese è una delle principali società di prospezione sismica al mondo. Controllata al 18 per cento dal governo francese, la CGGVeritas aveva già acquisito dati sismici sui bacini offshore siriani nel 2005, e da allora era stata diventata la principale fornitrici di dati geofisici e geologici del regime siriano.
Nel 2011, la società francese aveva firmato col governo siriano un contratto esclusivo per offrire supporto tecnico per il “bando offshore internazionale” di quell’anno, finalizzato all’assegnazione dei diritti di esplorazione e di produzione di gas e di petrolio per i tre blocchi offshore al largo della costa siriana, nel Mar Mediterraneo.
Nell’articolo citato, Bowman – che è stata anche coinvolto nell’analisi dei dati sismici delle risorse energetiche libiche – descrive i bacini offshore della Siria come «una vera zona di frontiera dell’esplorazione», notando l’esistenza di varie “zone piatte”, che, se confermate, «rappresenterebbero degli obiettivi di trivellazione da svariati miliardi di barili/trilioni di piedi cubi».
Le grandi imprese energetiche fanno la corte ad Assad
La CGGVeritas ha anche effettuato lavori di prospezione e di coordinamento dei bandi nel Mare del Nord per conto del governo britannico.
Nel 2012, il dipartimento degli interni statunitense ha pubblicato uno studio geologico in cui notava che la Syrian Petroleum Co., di proprietà del governo di Assad,
cooperava con diverse società petroliere occidentali, tra cui la Chinese National Petroleum Co. (CNPC), la Gulfsands Petroleum (Regno Unito), la Oil and Natural Gas Resources Corp. (India), la Royal Dutch Shell (Regno Unito) e la Total SA (Francia) per mezzo di società affilate.
Due anni prima, la capitale Siriana, Damasco, aveva ospitato la settima esibizione internazionale siriana del petrolio e del gas, convocata dal ministero del petrolio di Assad. L’esibizione fu sponsorizzata dalla CNPC, dalla Shell e dalla Total francese, e vide la partecipazione di centinaia di rappresentanti delle imprese internazionali, il 40 per cento delle quali erano basate in Europa.
Un memo del 2010 redatto dagli organizzatori dell’evento, Allied Expo, per conto del ministero del petrolio siriano, spiega come la società britannica Shell contava di lavorare a stretto contatto con il regime di Assad per sviluppare la produzione di gas della Siria. Ecco due slide tratte dalla presentazione:
Nel corso del 2010, gli ufficiali della Shell hanno incontrato diversi ministri del governo britannico. A luglio, hanno incontrato David Cameron per discutere di «affari», il ministro degli affari esteri David Howell per discutere di «questioni energetiche internazionali» ed il ministro del dipartimento dell’energia e del cambiamento climatico Charles Hendry.
Questi incontri di alto livello con vari dipartimenti del governo si sono susseguiti ogni singolo mese (ad eccezione del giugno del 2010) fino alle fine dell’anno seguente. Documenti declassificati del governo britannico mostrano come, nel periodo precedente all’invasione dell’Iraq nel 2003, le compagnie petrolifere britanniche BP e Shell abbiano tenuto diversi incontri con ufficiali di alto rango del governo per garantire alle imprese energetiche britanniche un ruolo nell’Iraq post-conflitto.
Mentre in pubblico il governo britannico accusava di “cospirazionismo” chiunque osasse tracciare un legame tra l’invasione dell’Iraq e la volontà da parte dei governi occidentali di accaparrarsi le risorse petrolifere del paese, in privato – come si evince dal memo di un incontro tra la baronessa Elizabeth Symons, l’allora ministro del commercio britannico, e diverse imprese petrolifere del paese – esso ammetteva che «difficilmente potrebbe essere negato un ruolo alle imprese britanniche in Iraq se il governo si dimostrerà un alleato fedele degli Stati Uniti».
Durante la primavera araba del 2011, quando le forze di sicurezza di Assad iniziarono a reprimere brutalmente i manifestanti pacifici, l’allora segretario di Stato statunitense Hillary Clinton insistette sul fatto che Assad era un «riformatore» – dandogli di fatto carta bianca per continuare a reprimere i manifestanti.
Man mano che le violenze aumentavano, i governi occidentali cominciarono a distanziarsi da Assad quando divenne evidente che il suo regime stava diventando sempre più instabile. Con lo scoppio della guerra civile, i progetti della Shell e delle altri gradi imprese petrolifere per sfruttare i bacini offshore della Siria dovettero essere sospesi.
Un’azione militare per proteggere il petrolio ed il gas del Mediterraneo
L’improvviso deterioramento della crisi siriana mandò all’aria i piani in corso per avviare l’esplorazione e lo sviluppo delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale.
Un rapporto pubblicato nel dicembre del 2014 dal Strategic Studies Institute (SSI) dell’esercito statunitense mostra chiaramente come gli strateghi americani, britannici e del Golfo vedano il Mediterraneo come un’opportunità per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo, e per incrementare l’indipendenza energetica di Israele.
A tal fine, si legge nel rapporto, potrebbe essere necessaria un’azione militare per avere accesso ai bacini offshore della Siria, che lambiscono le acque territoriali di diverse potenze mediterranee, tra cui Israele, l’Egitto, il Libano, Cipro e la Turchia.
Un rapporto redatto da Mohammed El-Katiri, consigliere del ministero della difesa degli Emirati Arabi Uniti ed ex capo ricercatore dell’Advanced Research and Assessment Group (ARAG) del ministero della difesa britannico, dice chiaramente che una Siria post-conflitto aprirebbe nuove prospettive nel campo dell’esplorazione energetica:
«Una volta risolto il conflitto siriano, le prospettive per la produzione offshore siriana sono molto alte», scrive El-Katiri. Le risorse di gas e di petrolio offshore del paese possono essere sviluppate «in maniera relativamente facile una volta stabilizzata la situazione politica».
Il rapporto dell’esercito statunitense nota che le risorse offshore della Siria fanno parte di un sistema più ampio di depositi di gas e di petrolio nel bacino del Levante comprendente i territori offshore di diversi Stati in competizione tra loro.
Si stima che la regione contenga all’incirca 1,7 miliardi di barili di petrolio e 122 trilioni di piedi cubi di gas naturale, un terzo del potenziale idrocarburico stimato del bacino.
Nel rapporto, l’intervento militare statunitense viene giudicato cruciale nel «gestire» i conflitti e le tensioni nel Mediterraneo orientale, soprattutto in vista di «un deterioramento della crisi siriana in una guerra civile de facto».
«Il supporto diplomatico e militare statunitense giocherà un ruolo centrale nel complesso panorama geopolitico del Mediterraneo orientale, e la sua importanza non farà che crescere man mano che la posta energetica in gioco si fa più alta», si legge nel rapporto:
Nell’eventualità dell’esplosione di un conflitto di risorse nel Mediterraneo orientale, il sostegno militare e di difesa degli Stati Uniti ai propri alleati potrebbe rivelarsi essenziale nel gestire possibili conflitti futuri.
Le mire dei neocon sul petrolio del Golan siriano
Uno dei possibili conflitti previsto dal rapporto è tra Siria ed Israele in merito alle licenze esplorative concesse dal governo israeliano per l’esplorazione di potenziali bacini petroliferi nelle Alture del Golan.
Il Golan fu sottratto da Israele alla Siria nel 1967, ed annesso unilateralmente nel 1981. Il rapporto riconosce che «le possibilità di un altro conflitto armato tra i due paesi sarebbero piuttosto alte nel caso fossero rivenute quantità significative di risorse idrocarburiche nell’area».
La società a cui sono stati concessi i diritti di esplorazione sulle Alture del Golan è una delle principali imprese statunitensi, la Genie Oil and Gas. I dati emersi dai primi scavi condotti dalla sussidiaria israeliana della Genie, la Afek Oil and Gas, hanno confermato la presenza di «significative» quantità di petrolio e di gas. Yuval Bartov, il capo geologo della Afek, ha detto di recente all’Economist che la società ha scoperto un bacino petrolifero «col potenziale di diversi miliardi di barili».
Uno degli azionisti della compagnia madre della Afek, la Genie Oil and Gas, è il magnate dei media Rupert Murdoch. A fine 2010, Murdoch ha stretto un accordo con Lord Jacob Rothschild per acquistare una quota del 5,5 per cento della Genie, del valore di circa 11 milioni di dollari. Lord Rothschild è il presidente della RIT (Rothschild Investment Trust) Capital Partners, un fondo d’investimento da 3,4 miliardi di dollari precedentemente affiliato alla banca d’investimento dei Rothschild.
La RIT Capital investe perlopiù in titoli azionari, titoli di debito, azioni immobiliari, petrolio e oro. Murdoch è il presidente della News Corporation, che era il secondo principale conglomerato mediatico al mondo prima che nel 2013 spacchettato in News Corp e 21st Century Fox. Murdoch è il presidente esecutivo di entrambe le società.
Murdoch controlla una fetta importante dei giornali, delle case editrici e dei network televisivi in lingua inglese, tra cui BSkyB, il Times e il Sun nel Regno Unito; la rete via cavo FOX, che include FOX News, Dow Jones, il Wall Street Journal, il New York Post e il National Geographic negli Stati Uniti; e l’Australian, il Daily Telegraph e l’Herald Sun in Australia.
«Penso che le tecnologie della Genie Energy e le numerose licenze ottenute nel settore del petrolio di scisto abbiano il potenziale di determinare un cambio di paradigma geopolitico a livello globale, man mano che una porzione importante della produzione di petrolio si sposta verso l’America, Israele e altre democrazie alleate dell’Occidente» – così Murdoch ha spiegato la sua decisione di investire nella società.
Nel corso dell’inchiesta Leveson sull’etica nei media, è emerso che il magnate dei media aveva avuto diversi incontri col primo ministro David Cameron, e che quest’ultimo intratteneva rapporti molto stretti con Murdoch ed altri dirigenti della News Corp.
Murdoch e Rothschild sono anche membri del board di consulenza strategica della Genie, insieme a Larry Summers, ex direttore del Consiglio economico nazionale di Obama; James Woolsey, ex direttore della CIA, ex vicepresidente della Booz Allen Hamilton (società di consulenza della National Security Agency), membro del consiglio consultivo dell’organizzazione islamofobica Gatestone Institute e patrono internazionale della Henry Jackson Society; e Bill Richardson, ex segretario dell’energia sotto Clinton e attuale governatore del New Mexico.
Smembrare la Siria per evitare il peak oil
Un’altra sussidiaria della Genie Oil and Gas è la American Shale Oil, una partnership con la francese Total SA. Total, si ricorderà, era tra i principali sponsor dell’esibizione internazionale del petrolio e del gas tenutasi nel 2010 a Damasco.
La American Shale Oil (AMSO) opera nella formazione del Green River, in Colorado, che si stima contenga 3 trilioni di barili di petrolio recuperabile.
Sul proprio sito internet, la società spiega il perché del suo interesse per l’estrazione di petrolio non convenzionale negli Stati Uniti ed in Israele:
Il picco della produzione globale di petrolio negli Stati Uniti e nel mondo rappresenta una sfida enorme. È dunque necessaria un’azione aggressiva per evitare di incorrere in costi economici, sociali e politici senza precedenti.
La “dichiarazione di intenti” sorprendentemente candida della Genie Energy dimostra che il “peak oil” (‘picco del petrolio’), solitamente negato dall’industria petrolifera, è una realtà. Per peak oil non si intende la fine del petrolio, ma la fine dell’era del petrolio a basso costo e di facile accesso.
Documenti declassificati relativi all’invasione dell’Iraq e alla successiva occupazione del paese mostrano che i piani di guerra delle amministrazioni di Bush e di Blair furono pesantemente influenzati dalle considerazioni sul potenziale impatto del peak oil.
Questo evidenzia come le attività della Genie Energy in Siria (per mezzo di Israele) siano parte integrante di un disegno strategico molto più ampio finalizzato ad acquisire il controllo delle ultime risorse petrolifere e di gas disponibili in vista dell’impatto del peak oil.
La premessa di base delle attività di esplorazione della Genie Energy nelle Alture del Golan – ossia che il territorio sarà eventualmente ceduto in maniera definitiva ad Israele – sembra essere condivisa anche dallo stesso Obama.
Ai primi di novembre, il giornalista Jonathan Cook scriveva che «il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha approfittato di un incontro privato… con Barack Obama per sollevare il tema dello smembramento della Siria». A quanto pare, tale ipotesi non è stata esclusa da Obama.
Esiste ormai un cartello di interessi estremamente ampio e potente – comprendente importanti imprese statunitensi, britanniche, francesi ed israeliane operanti nei settori della difesa, della sicurezza, dell’energia e dei media – che spinge per la disgregazione della Siria. La motivazione principale è il controllo delle potenziali risorse petrolifere e di gas offshore della Siria e del Mediterraneo orientale; tra l’altro, questo avrebbe anche l’effetto di indebolire molto la posizione della Russia e dell’Iran nella regione.
Secondo il rapporto del 2012 del dipartimento degli interni statunitensi, la guerra civile ha dato un’accelerata ai progetti di Assad per trasformare la Siria in un centro di trasbordo tra la Russia e l’Iran da un lato e l’Europa dall’altro:
Nell’estate del 2011, l’Iran, l’Iraq e la Siria hanno firmato un memorandum d’intesa per un gasdotto da 5,000 chilometri denominato Islamic Gas Pipeline. Questo dovrebbe trasportare il gas dal giacimento iraniano di South Pars all’Europa, passando per l’Iraq, la Siria, il Libano ed il Mar Mediterraneo. L’Iran ha suggerito che l’Islamic Gas Pipeline potrebbe rappresentare un’alternativa al gasdotto Nabucco sponsorizzato dall’Unione europea, che dovrebbe trasportare il gas all’Europa attraverso la Turchia e l’Austria.
Gli Stati Uniti, da parte loro, sostenevano la creazione di un terzo oleodotto per trasportare il gas dalla sezione qatariota del North Field, il giacimento condiviso con l’Iran, verso l’Europa, passando per l’Arabia Saudita, la Giordania, la Siria e la Turchia. Le imprese che hanno interesse nello sviluppo della sezione qatariota del North Field includono la ExxonMobil statunitense e la Total francese.
Il conflitto siriano, progressivamente aggravatosi dopo la decisione di Assad di stringere un accordo preliminare con la Russia e l’Iran, ha effettivamente reso nulli i progetti per il gasdotto Iran-Iraq-Siria, che sarebbe dovuto essere completato nel 2016. Come nota il succitato rapporto dell’esercito statunitense: «Con l’aggravarsi del conflitto nel paese, i progetti della Siria di diventare un importante paese di transito verso l’Iraq, il Mediterraneo e l’Europa sono stati seriamente ridimensionati».
L’ISIS: una foglia di fico per l’accaparramento delle risorse del Mediterraneo
Nonostante ciò – o forse proprio in virtù di esso – la Russia sembra intenzionata a garantirsi una fetta della torta. Nel settembre del 2015, la SoyuzNefteGaz, una società del petrolio e del gas russa, ha iniziato le operazioni di prospezione sismica sulla costa occidentale della Siria – la stessa area esplorata dalla CGGVeritas. Le operazioni fanno seguito ad un accordo del 2013 tra la Siria e la Russia.
È probabile che la crescente presenza militare russa in Siria, giustificata come offensiva anti-ISIS, abbia in realtà lo scopo di tenere in piedi Assad all’interno di un mini-Stato alawita alleato con l’Iran. Così come è probabile che l’accusa lanciata da Putin alla Turchia in seguito all’abbattimento del jet russo – ossia di facilitare le vendite di petrolio dell’ISIS – sia in realtà una foglia di fico per giustificare un’azione militare.
Come notavamo in un articolo della settimana scorsa, esistono numerose prove a sostegno del fatto che elementi di alti livello del governo e delle agenzie di intelligence della Turchia hanno offerto sostegno militare e finanziario ai vari gruppi islamisti operanti in Siria, tra cui l’ISIS, e che questo comprende la vendita di petrolio sul mercato nero.
Ma perché Vladimir Putin ha aspettato l’uccisione di un pilota russo per denunciare i contatti tra la Turchia e l’ISIS? È chiaro che fino all’abbattimento del jet russo, l’obiettivo principale di Putin era quello di proteggere i rapporti della Russia con la Turchia e salvaguardare il multimiliardario gasdotto russo-turco “Turkish Stream”, che avrebbe trasformato la Turchia in un importante centro di trasbordo di gas verso l’Europa. Il progetto è ora stato sospeso.
Le operazioni militari statunitensi, britanniche e francesi sono state ugualmente ambigue; non ci si spiega, infatti, come mai non siano state bloccate le linee di approvvigionamento dell’ISIS attraverso la Turchia; perché non siano state bombardate le infrastrutture cruciali dell’ISIS, tra cui i convogli petroliferi; e perché ci si rifiuti di armare le forze curde, che finora si sono rivelate le più efficaci nel fermare l’avanzata dell’ISIS.
È chiaro ormai che la strategia della coalizione anti-ISIS a guida statunitense ha principalmente lo scopo di contenere le ambizioni territoriali del gruppo all’interno della Siria. Poco prima degli attacchi di Parigi, Obama aveva dichiarato:
Fin dal principio, il nostro obiettivo è stato quello di contenerli. Non hanno conquistato nuovi territori in Iraq. E per quanto riguarda la Siria – continueranno ad entrare e ad uscire, ma non li vedrete marciare verso nuovi territori.
Questa strategia è perfettamente in linea con lo smembramento de facto dell’Iraq e della Siria auspicato dal cartello di interessi neoconservatori che abbiamo menzionato in precedenza.
Mentre la Russia espande la propria presenza militare nella regione in nome della lotta all’ISIS, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia si stanno affrettando a fare lo stesso in Siria – con l’obiettivo di garantirsi la loro fetta della torta nello scenario post-conflitto.
In questo contesto, man mano che la Russia e l’Iran rafforzano la loro influenza sul regime di Assad – garantendosi così all’accesso alle risorse offshore del paese nel Mediterraneo –, l’accelerazione dell’azione militare occidentale prende la forma di una classica strategia bastone-e-carota: con la carota, si cerca di convincere Assad ad assecondare gli interessi energetici dell’Occidente della regione; col bastone, ci si prepara a sostenere una nuova offensiva anti-regime da parte delle forze ribelle alleate dell’Occidente, dei paesi del Golfo e della Turchia (contenendo al contempo la fazione più virulenta, l’ISIS).
Questa strategia sanguinolenta per battere la Russia e l’Iran nella corsa alle risorse del Mediterraneo è destinata quasi sicuramente all’insuccesso, per tutte le parti coinvolte.
E, a giudicare dalla storia recente, è destinata a ritorcercisi contro in maniere che non possiamo né prevedere, né controllare.
Pubblicato su INSURGENCE Intelligence il 2 dicembre 2015. Traduzione di Thomas Fazi.