Bruxelles – “L’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro”. L’articolo 3 del trattato sull’Ue parla chiaro: ogni Stato membro deve entrare nell’ordine d’idee che, se non l’ha già fatto, prima o poi dovrà adottare l’euro. Le sole eccezioni a questa regola sono la Gran Bretagna e la Danimarca, che negli anni hanno negoziato un opt-out (cioè una rinuncia) all’Unione economica e monetaria. Salvo futuri ulteriori ingressi nell’Ue, nei prossimi anni i membri dell’Eurozona dovrebbero quindi crescere da 19 a 26. Esiste però uno Stato che da 15 anni vive in una sorta di limbo normativo, in contrasto coi i trattati, al quale nessuno se la sente di dire di fare ciò che ha promesso. È la Svezia, terzo Paese dell’Ue per superficie e Stato nordico con il maggior numero di abitanti.
Membro dell’Ue dal primo gennaio 1995, la Svezia non solo non ha ancora adottato la moneta unica, ma non ha nessuna intenzione di farlo nel prossimo futuro. Il Paese scandinavo, infatti, non è mai nemmeno entrato a far parte dell’Erm II (Exchange Rate Mechanism), una sorta di anticamera in cui è necessario stare almeno due anni prima d’entrare a far parte dell’Eurozona. Stati membri ben più piccoli (Estonia, Lituania, Slovenia, Cipro, Lettonia, Malta e Slovacchia), la cui adesione all’Ue è molto più recente, in meno di un decennio hanno raggiunto tutti gli obiettivi necessari per salire sul treno della moneta unica. La Svezia invece no, non se l’è mai sentita di dire addio alla sua corona nonostante il Paese soddisfi ampiamente quasi tutti i cosiddetti “parametri di Maastricht”. Come registra l’ennesimo “Rapporto di convergenza” redatto dalla Commissione europea sulla situazione economica svedese, l’unico motivo per cui il regno scandinavo da 15 anni risulta incompatibile con la totalità dei parametri riguarda il regolamento della sua Banca centrale. Questioni politiche, dunque, non economiche.
All’origine del rapporto da separati in casa fra la Svezia e l’euro c’è un referendum che risale a 12 anni fa. Nel 2003, quando Romano Prodi era presidente della Commissione Ue, il governo socialdemocratico di Göran Persson decise d’indire un referendum sull’adozione o meno dell’euro. La consultazione si svolse il 14 settembre, tre giorni dopo l’assassinio del ministro degli Esteri Anna Lindh, pugnalata mentre faceva shopping senza scorta in un grande magazzino di Stoccolma da un 25enne con problemi psichici. Diventata popolare anche grazie alla presidenza svedese del Consiglio Ue (fra gennaio e giugno 2001), Lindh era uno dei politici più apprezzati del Paese ed era fra i principali sostenitori della campagna del “sì” all’euro. Impossibile comprendere se il terribile fatto di cronaca abbia influenzato o meno il risultato del referendum. Di fatto, quel giorno il 55,9% della popolazione disse “no” alla moneta unica (l’affluenza fu dell’82%).
Secondo un sondaggio Eurobarometro effettuato dieci giorni dopo la consultazione popolare, la maggior parte dei votanti furono persone di oltre 40 anni, mentre solo il 60% dei giovani fra i 18 e i 24 anni si recarono alle urne. Oggi si stima che fra i contrari all’ero siano fra l’80% e il 90% della popolazione svedese. Eppure le regole dei trattati, il cui rispetto per molti Stati membri è quasi un dogma, non lasciano scampo ai Paesi dell’Unione: prima o poi l’euro va adottato. Altrimenti sarebbe come dire che l’esito di un referendum vale più di una rigida norma comunitaria. Ma a Bruxelles nessuno sembra farci caso.