Roma – La figura del collaboratore parlamentare è prevista dallo Statuto del Parlamento europeo. L’articolo 21 prevede che “i deputati hanno diritto ad essere assistiti da collaboratori personali da loro liberamente scelti”, e che “il Parlamento copre le spese effettivamente sostenute per l’impiego degli assistenti”. Il compito di normare i dettagli del rapporto di lavoro è demandata a una decisione dell’Ufficio di presidenza della stessa Assemblea comunitaria, che ne disciplina i dettagli. Già qui emerge una prima abissale distanza dal sistema italiano dove la figura dell’assistente parlamentare, semplicemente, non è formalmente riconosciuta. Tanto meno esiste una legge in materia, che pure aveva ottenuto il sì della Camera nella passata legislatura, ma poi è morta al Senato. Per questo l’Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp), con il suo presidente Riccardo Malavasi, chiede che “finalmente anche il Parlamento italiano riconosca e definisca la figura” degli assistenti con una normativa chiara, che si ispiri al modello europeo. Ecco le differenze tra i due sistemi.
Numero di assistenti – Il regolamento del Parlamento europeo prevede che “all’inizio di ogni legislatura, i Questori stabiliscono il numero massimo di assistenti che ciascun deputato può accreditare”. Questo vale solo per i collaboratori che affiancano il deputato nelle sedi europee (Strasburgo e Bruxelles), mentre non c’è limite per i collaboratori locali, che operano nel collegio di provenienza del parlamentare. In Italia, sono due gli assistenti che possono essere accreditati per l’accesso al Parlamento. Nessun limite per i collaboratori sul territorio.
Il budget – In Europa, è il budget previsto per i compensi a determinare un limite al numero di assistenti che un deputato può assumere. Attualmente ammonta a un massimo di 21.379 euro mensili, che sono vincolati alla effettiva spesa relativa agli stipendi o ai compensi dei collaboratori accreditati e di quelli sui territori. Viste le notevoli differenze nel costo del lavoro tra i diversi stati membri, i deputati che pagano meno i loro assistenti se ne possono permettere di più. In Italia, ogni deputato ha circa 4 mila euro mensili di budget (3.600 i senatori), che però riguardano genericamente le spese per l’attività politica, con l’obbligo di rendicontarne solo il 50% per ottenere l’intera somma. Importo che, per altro, include tanto le spese per gli assistenti quanto, ad esempio, quelle per l’affitto di un ufficio sul territorio di provenienza.
Chi paga – È il Parlamento europeo a versare lo stipendio ai collaboratori accreditati, che stipulano il contratto direttamente con l’Istituzione. Per gli assistenti sul territorio, il deputato deve individuare un terzo erogatore, al quale il Parlamento rimborserà le spese a fronte della presentazione di ricevute e fatture. In nessun caso può essere il deputato a pagare il proprio assistente per ricevere poi un rimborso. Diametralmente opposta la situazione in Italia. L’Istituzione assegna direttamente al parlamentare il budget previsto – anche nel caso non si avvalga di alcun assistente, purché dimostri di spenderne almeno la metà per l’attività politica – ed è questi a provvedere al pagamento dei collaboratori. Una situazione che secondo Riccardo Malavasi, presidente dell’Aicp (Associazione italiana collaboratori parlamentari) può generare “distorsioni e irregolarità”.
I contratti – Gli assistenti accreditati sono contrattualizzati direttamente dal Parlamento europeo, mentre quelli locali hanno contratti in cui il parlamentare risulta come datore di lavoro, ma la gestione è affidata al soggetto terzo erogatore, il quale deve garantire (e dimostrare), insieme con il compenso, il pagamento degli oneri fiscali e di quelli previdenziali, oltre a eventuali coperture assicurative per infortuni se previste dalla normativa nazionale. In Italia c’è una “giungla di forme contrattuali”, secondo il ricercatore Claudio Tancredi Palma, che in una conferenza stampa dell’Aicp ha presentato uno studio – realizzato dall’Istituto di ricerche sulla Pubblica amministrazione – dal quale emerge che molto spesso “le forme utilizzate non assicurano garanzie previdenziali e assicurative”.