Un estratto del nuovo libro di Roberto Petrini, Controstoria della moneta
Solone fece una vera politica monetaria? Non fu solo Menenio Agrippa con il suo celebre apologo a indurre la plebe a più miti consigli ma una sapiente opera di svalutazione della moneta in grado di alleviare il peso dei debiti sui più poveri? E perché Enrico VIII, noto per le sei mogli, era chiamato “The Old Coppernose”? Come andò che alla fine del Seicento per risolvere il problema della penuria di monete d’argento in Inghilterra furono convocati il filosofo Locke, Isaac Newton e Halley, quello della cometa?
La storia della moneta è piena di enigmi e stranezze, ma è soprattutto una vicenda che corre pericolosamente intorno alle tasche e al tenore di vita di noi tutti. Per molti secoli è stata lo “sterco del diavolo”, oggi al Dio Denaro ci si inchina. Chi ne ha spera che il suo valore resti stabile, chi ha debiti spera che si svaluti. Gli alfieri della turbofinanza pensano a “fare denaro con il denaro” e ritengono che si tratti di un affare di esclusivo dominio del mercato.
La sindrome di Paperone, che venera con cupidigia la “numero 1”, il primo cent guadagnato, custodito con ansia paradossale, ci ha convinti che la moneta sia il luogo specifico dell’avidità, dell’egoismo e della diffidenza. Oggi è indubbiamente così: non c’è bisogno di fare esempi, ma non è sempre stato questo l’andazzo. Anzi, al contrario, la storia della moneta che parte oltre due millenni e mezzo fa, nelle isole dell’Egeo, ci dice che il denaro nasce dalla particolare attitudine dell’uomo a dividersi il lavoro all’interno di un gruppo e a fare scambi e commerci. A stare insieme.
La moneta quando sboccia, all’alba dei tempi, fa rima con fiducia. È più un mezzo che un fine. Le piccole aggregazioni arcaiche dell’Isola di Yap in Micronesia, dove come moneta venivano usati grossi pietroni, nemmeno si curavano di spostare i loro pesanti mezzi di scambio alla fine di una transazione: li lasciavano per le strade del villaggio o in fondo al mare e si limitavano a mandare a memoria debiti e crediti.
Si voglia o no, con questa realtà bisogna confrontarsi: la moneta non è una merce qualsiasi, un oggetto come gli altri, e non può essere lasciata a se stessa. Per questo va governata attraverso la comunità, lo Stato, le banche centrali. Eppure l’idea che la moneta potesse amministrarsi da sola è stata radicata per molti anni nel consesso internazionale: era l’epoca del gold standard, che si frantumò in coincidenza con la Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento. Il tintinnio dell’oro ebbe allora un suono sinistro.
La storia della moneta è anche una storia di debiti e di crediti, di forti e di deboli. Nell’Ottocento negli Stati Uniti nacque il partito dell’argento: i “silveriti” volevano una moneta debole che alzasse i prezzi agricoli ed arrivarono a candidare alla presidenza il democratico William Jennings Bryan che si battè fieramente contro la moneta d’oro dei ricchi e di Wall Street.
Per secoli si è inseguito il mito della moneta stabile: ma crisi ripetute, drammatiche e devastanti, hanno segnato la storia. Si dovette arrivare a Bretton Woods, con le macerie ancora fumanti della Seconda guerra mondiale, perché si riuscisse a capire che senza la cooperazione internazionale non si sarebbe andati molto avanti. Fu una scelta vincente, perché fino al 1968 regnò la calma sul mercato delle valute.
Oggi c’è il rischio di una nuova e pericolosa anarchia valutaria: viene da pensare all’Anno Mille, quando in ogni angolo d’Europa c’era una zecca guardata da armigeri, che batteva la propria moneta.
Nemmeno chi si mette al riparo dietro a una valuta forte, come ha tentato l’Argentina con il dollaro o chi si mette in comune, al costo di enormi sacrifici, come hanno fatto gli europei, è al sicuro: la crisi che investe il pianeta dal 2007-2008 ne è la dimostrazione. Come uscirne? Un buon passo sarebbe quello di tornare all’idea che la moneta appartiene alla comunità e che, in fondo, si tratta solo di uno strumento per facilitare gli scambi e, se possibile, aumentare il benessere. Nel passato erano in molti a pensarla così.
Pubblicato sulla Repubblica il 30 ottobre 2014.