Traduzione redatta di una conversazione tra lo scrittore Thomas Piketty, autore del Capitale nel XXI secolo, e Pablo Iglesias, leader del partito politico spagnolo Podemos, trasmessa nel programma “Otra vuelta de tuerka” (condotto dallo stesso Iglesias) e pubblicata in lingua inglese su Juncture Online.
Pablo Iglesias: Leggendo l’introduzione al tuo libro, mi ha colpito la maniera in cui hai descritto la tua esperienza negli Stati Uniti. Hai scritto che volevi tornare subito in Europa, e che eri infastidito dalla deificazione degli economisti negli Usa.
Thomas Piketty: Mi sono trovato bene negli Usa, ma non vedevo l’ora di tornare in Francia e di rimettermi al lavoro sulla ricerca storica, economica e sociale. In generale, mi considero più un ricercatore delle scienze sociali che un economista. Penso che la linea di confine tra l’economia, la storia, la sociologia e le scienza politiche sia molto più sottile di quanto non si voglia far credere. Capisco che gli economisti siano attratti dall’idea di fare dell’economia una scienza a sé, così complessa da risultare incomprensibile a tutti gli altri. Ma è un approccio pericoloso, che ha fatto molti danni. Nel mio libro mi occupo della storia dei redditi e dei patrimoni, ed è un tema che non penso si possa affrontare senza mescolare l’economia al sociale, alla politica e alla cultura. Ci sono questioni che sono troppo importanti per essere lasciate agli economisti.
Iglesias: Hai detto che non sei un economista marxista. Allora perché intitolare il tuo libro Il capitale nel XXI secolo?
Piketty: Il titolo riflette il mio tentativo di rimettere la distribuzione della ricchezza al centro dell’economia politica, ma approcciando il tema in maniera diversa da come fecero autori come Ricardo e Marx nel 19esimo secolo. Nel corso dei secoli siamo passati dalla proprietà terriera alla proprietà immobiliare a quella finanziaria alla proprietà intellettuale, ecc. Eppure, nonostante questo, i processi di accumulazione del capitale non sono cambiati così tanto. Nella prima metà del 20esimo secolo, una serie di violenti shock – la prima guerra mondiale, la rivoluzione bolscevica, la Grande Depressione, la seconda guerra mondiale – hanno permesso una riduzione delle disuguaglianze nei paesi capitalisti. È solo in seguito a questi shock che le élite dei paesi occidentali hanno accettato una serie di riforme sociali e fiscali a cui si erano strenuamente opposte prima del 1914. Sono stati questi mutamenti istituzionali a permettere una certa riduzione delle disuguaglianze. A partire dalla rivoluzione conservatrice angloamericana di Thatcher e di Reagan abbiamo assistito ad un’inversione di quel processo, che ha determinato livelli di disuguaglianza che oggi, in alcuni casi, superano quelli del periodo pre-1914. La prospettiva storica ci aiuta a capire che le disuguaglianze nel capitalismo non sono il frutto di eventi naturali ma di specifiche situazioni economiche, legali, politiche ed istituzionali.
Iglesias: Nel tuo libro spieghi che la guerra è uno dei fattori storici cruciali per comprendere la riduzione delle disuguaglianze. Cosa possiamo aspettarci dal complesso contesto geopolitico di oggi, in cui nuovi attori emergenti stanno iniziando a sfidare l’egemonia americana? Le possibilità di cambiamento economico e sociale passano necessariamente per i conflitti militari?
Piketty: Nel 20esimo secolo è stato senz’altro così: prima dello shock delle due guerre mondiali non si era verificato nessun movimento spontaneo per la riduzione delle disuguaglianze, e le élite si erano rifiutate di accettare qualunque riforma significativa del sistema. La Francia è un ottimo esempio: prima del 1914 le élite repubblicane francesi si erano rifiutate di pagare qualunque forma di imposta sul reddito. Questa è stata introdotta solo nell’estate del 1914, e non per costruire asili ma per finanziare la guerra contro la Germania. Dobbiamo trarre la conclusione che solo gli shock violenti possono costringere le élite a scendere a compromessi? Non credo. Sono abbastanza ottimista. Voglio credere che le forze democratiche siano in grado di riprendere il controllo dell’economia e di domare le forze alla base delle disuguaglianze. Allo stesso tempo, sarebbe naif pensare che i processi elettorali siano sufficienti a generare il cambiamento necessario. I movimenti sociali – e in alcuni casi anche i movimenti politici caotici – sono essenziali per produrre il cambiamento.
Iglesias: Come possiamo recuperare sovranità a livello sovrastatale? Nonostante il trasferimento di sovranità dalle istituzioni nazionali a quelle sovranazionali, in Europa l’unico spazio realmente contendibile a livello politico rimane quello nazionale. Eppure tu sostieni che per democratizzare l’economia bisogna ridurre il ruolo degli stati nazionali. È veramente possibile democratizzare l’economia senza prefigurare un ruolo centrale per lo stato?
Piketty: Gli stati nazionali devono continuare a giocare un ruolo essenziale. Ma abbiamo anche bisogno di costruire un’autorità democratica e legittima in Europa a livello continentale, o comunque sovranazionale. È l’esistenza di una moneta senza stato ad essere all’origine di molti dei nostri problemi. Prendi il problema dell’imposta sulle imprese: oggi le multinazionali non pagano quasi nulla di tasse, e questo è un problema che non possiamo risolvere a livello nazionale. Lo possiamo fare solo a livello europeo. Ma per fare questo dobbiamo realmente democratizzare le istituzioni europee. Il principio dell’unanimità sulle questioni fiscali va abbondato: non riusciremo mai a riformare i sistemi impositivi se dobbiamo ogni volta ottenere l’approvazione di tutti e 28 i paesi dell’Ue. Se qualcuno non è d’accordo va bene, ma questo non deve impedire agli altri stati di dotarsi di una sovranità democratica e parlamentare sovranazionale, di un parlamento comune, in cui ogni nazione sia rappresentata in base alla sua popolazione e dove sia possibile sanzionare i paesi che non collaborano. Se non riusciremo ad organizzare una nuova forma di autorità pubblica democratica che vada oltre lo stato nazione temo che assisteremo ad un rinnovato egoismo nazionalista.
Iglesias: In linea di principio sono d’accordo con te ma è un obiettivo molto difficile da mettere in pratica. Mi chiedo come possiamo imporre la regola della maggioranza nei processi decisionali che avvengono a livello sovrastatale? Come possiamo trasformare l’Ue in un vero spazio democratico, in cui le decisioni sono prese dalla sovranità popolare e non da una banca centrale senza alcuna legittimità democratica o da una troika europea che fa solo gli interessi della Germania? Qual è il meccanismo di cui dovremmo dotarci?
Piketty: Innanzitutto voglio dire che considero l’ascesa di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia una delle poche notizie positive che sono arrivate dall’Europa in quest’ultimo anno. Soprattutto per chi, come me, viene da un paese in cui la sfida all’establishment viene da destra, non da sinistra. Penso che la Germania sia responsabile di molti dei problemi che stiamo vivendo in Europa, in termini di architettura dell’Ue e di misure di austerità. È stata la Germania a spingere per l’introduzione del Fiscal Compact nel 2012; un trattato pessimo ma che almeno ha dimostrato che è possibile cambiare i Trattati quando c’è la volontà politica di farlo. In quel caso ci abbiamo messo solo sei mesi, anche se purtroppo siamo andati nella direzione sbagliata: abbiamo approfondito il federalismo tecnocratico e il sistema intergovernativo dell’Ue invece di democratizzarlo. Questo non sta funzionando.
È arrivato il momento di mettere sul tavolo una vera riforma democratica dell’Europa. Ritengo che paesi come Spagna, Francia ed Italia dovrebbero suggerire alla Germania la creazione di un parlamento dell’eurozona, in cui ogni paese sia rappresentato in base alla sua popolazione per mezzo di rappresentanti provenienti dai parlamenti nazionali. Penso che la costruzione di una sovranità parlamentare sovranazionale debba basarsi sulla sovranità parlamentare nazionale. Questo parlamento potrebbe prendere decisioni su questioni come il livello di deficit pubblico, di investimenti pubblici, di imposta sulle imprese, ecc. Se avessimo avuto istituzioni più democratiche allo scoppio della crisi avremmo avuto meno austerità. Penso che se tale proposta fosse avanzata, la Germania non potrebbe ostacolarla all’infinito. È vitale dunque avviare il dibattito su questo tipo di proposta. Non possiamo solo puntare il dito contro la Germania: dobbiamo anche dimostrare che esistono delle alternative. Senza una riforma radicale dell’eurozona, il progresso economico e sociale in Europa non sarà più possibile.
Iglesias: Avevo proprio bisogno di sentirtelo dire! Perché troppo spesso sentiamo dire che la Germania non cederà mai e che non è possibile cambiare niente nell’Ue. Uno dei punti centrali del programma di Podemos è la ristrutturazione del debito pubblico. Ma il tema è ancora tabù negli ambienti politici mainstream: la ristrutturazione del debito è associato a scenari apocalittici. Da dove deriva il consenso secondo cui ristrutturare i debiti è impossibile, quando sono sempre più numerosi gli esperti che invitano a considerare una soluzione di questo tipo?
Piketty: Nel mio libro mostro come la storia del debito pubblico insegna che è semplicemente impossibile ridurre un alto livello di debito pubblico con zero inflazione e zero crescita. Dobbiamo ricordare che in passato siamo riusciti a tirarci fuori dalle crisi del debito solo attraverso l’inflazione o ristrutturando. È stato così per la Francia e la Germania in seguito alla seconda guerra mondiale, quando abbiamo ridotti i debiti con l’inflazione e cancellandone una parte. È stata una decisione saggia, che ci ha permesso di “ripartire da zero” negli anni cinquanta e sessanta e di investire nella crescita, nelle infrastrutture pubbliche, nell’educazione. Se avessimo cercato di ripagare quei debiti, li staremmo ripagando ancora oggi! È assurdo – un vero e proprio caso di amnesia collettiva – che oggi proprio la Francia e la Germania insistano affinché i paesi del Sud Europa ripaghino tutti i loro debiti, fino all’ultimo centesimo, in uno scenario di inflazione bassa o addirittura negativa. Paesi come la Spagna e l’Italia oggi spendono di più per ripagare gli interessi sul debito che per finanziare l’università e la ricerca. L’Italia spende circa il 5% del Pil per il servizio del debito e solo l’1% per il sistema universitario. Può essere questa considerata una buona strategia per il futuro? Non credo. Ora, il problema è che in molti paesi la classe politica – sia a destra che a sinistra – fa fatica ad ammettere i propri errori. E quello del debito pubblico è un problema che in molti casi riguarda tutto l’establishment politico.